Sono le cinque del pomeriggio di uno di quei Venerdi’ Romani che fanno invidia solo alle Ottobrate New Yorkesi, entro nella casa per gli anziani “due palme” perche` voglio accendere le candele di Shabat con Milena Zarfati. Ci siamo conosciute due sera fa, lei pero` non se lo ricorda, ma non importa.
A 80 anni infatti soffre di demenza senile, ma appena mi vede entrare mi chiama per nome, mi sorride e mi dice “e damme du bacetti?” Poi mi guarda dietro la schiena e vede la macchina fotografica a tracolla e allora mi dice “de mettela via,” perche` lei “‘ste cose nun le faccio fa` mai” questa che mi rilascia e` un`intervista in via del tutto eccezionale.
Faccio come dice, apro lo zaino e ci lascio cadere la mia macchina fotografica. Lo richiudo.
Non faccio in tempo a rialzarmi che lei comincia a girare per tutta la sala pranzo con due foto di quando era giovane, dopo la liberazione. Vuole farle vedere a tutte le altre “ragazze” della casa.
Non posso non fotografare e allora riprovo. Lei mi guarda di nuovo e questa volta mi sorride dicendomi “Aho, hai visto quant’ero bella `na volta? Mica come adesso, qui m’ero pure rimessa… Senti ma poi tutte ‘ste foto me le regali pure a me?”
Dopo che ha finito il giro per far vedere le foto alle sue amichette, se lo dimentica e allora si alza e ricomincia daccapo. Non importa quante volte ce lo ripete che era bella, nei suoi occhi brilla quella felicita` ogni volta che nomina i suoi anni dopo la liberazione dai campi e allora, anche se per me e per suo figlio Alberto che e` li’ vicino sembra un nastro registratore ininterrotto, se questo la rende felice, che lo ripeta 1000 e piu`volte.
“Pero` dei campi nun me fa parla`,” mi dice.” Perche`io nun so capace de ricordamme e poi me se ‘ngarbuglia er cervello e capita che me rigiro la notte a letto.”
Milena e` una delle poche sopravvissute a Roma che non ha mai parlato. Si e` tenuta sempre tutto dentro, nemmeno ai suoi due figli ha mai raccontato perche` dietro l`orecchio destro ha ancora una scheggia di proiettile che le impedisce di sentire bene. Lei il numero e il passato lo conosce bene, ma non vuole riviverlo e raccontarlo come altri che ne hanno fatto una loro ragione di vita. Per lei questo e` troppo “rischioso.” Il male subito non va condiviso, ma solo dimenticato.
Non parliamo poi se si spegne la luce della stanza da letto quando va a dormire…”la ritroviamo spaesata che trema in un angoletto della stanza dicendoci di non picchiarla,” dice Alberto il figlietto piccolo.
Io non dico niente, le chiedo invece perche` ha due anelli da matrimonio e come ha incontrato suo marito da giovane e questo la fa sorridere ed il suo sorriso scalda anche me che pero` non potro` mai immaginare, cosa si prova ad avere le primissime mestruazioni nei campi di concentramento e a dover usare i pezzi di paracaduti o di stoffe sporche per bloccare il sangue che dovrebbe renderci donne fertili e invece trasformava tutte queste donne in bestie.
Mentre torno a casa, in macchina, mi viene da pensare a tutte le storie atroci che ho sentito in questo mese e a come a 27 anni io possa far tesoro di questi racconti al meglio. Poi pero` mi fermo e penso che la mia piu` grande fortuna non sono le storie per se, ma l`aver conosciuto queste persone faccia a faccia. Averle fotografate in momenti della loro quotidianità`, nel loro ambiente piu` comodo e nella loro piu` onesta realta`.
L`unico rimpianto: l`aver dovuto fare loro rivivere dei momenti orribili, e l`aver chiesto loro di entrare in dettagli macabri e duri. Non mi e `piaciuto che abbiamo dovuto versare lacrime perche` gli ho chiesto di tornare indietro nel tempo e farli rientrare nei campi…
La mia mitzva: diffondere i loro racconti ovunque mi sia possibile non solo per informare, ma perche` il loro sacrificio di avermi resa partecipe delle loro vite passate e presenti non vadano vani.